Il termine femminismo non mi è mai piaciuto del tutto, non so perché, ma forse perché come tutti gli “ismi” mi ha sempre dato l’idea di implicare una qualche preferenzialità, o perché ancora non riesco a non associarlo a certe modalità di manifestazione che non condivido e che considero troppo rigide. Ma al di là di disquisizioni linguistiche e del perché io abbia sviluppato questa sensazione (di cui per altro non vado necessariamente fiera) rispetto a questa parola, il linguaggio non è che una convenzione, e allora, di fatto, un termine vale l’altro. E quello che diventa importante è quindi capire cosa associare, oggi, a questa parola.
Di tutte le barriere che di fatto ancora impediscono alle donne di raggiungere una reale parità nelle opportunità e nella relazione col mondo maschile, una delle più insidiose, in quanto tra le più dissimulate, mi pare essere ancora il rischio di interpretare la parità secondo una serie di escamotages d’apparenza, e non nella sua sostanza; laddove la sostanza implica il rispetto delle caratteristiche intrinseche, e non l’applicazione abietta e ripetitiva di regole che ascrivono il comportamento in una matrice unica, sia essa tradizionalista, o progressista, o femminista.
Siamo ancora lontane dal riuscire a interpretare la parità nella sua dimensione di diversità e libertà. Sento forte il bisogno di liberarci (sia donne che uomini) ancora da categorie ed etichette; di poter andare in fondo alla femminilità ed esprimerla ritrovandone la sua essenza naturale, che possa essere una combinazione libera di tradizione e progresso, laddove gioco e seduzione, libertà e consapevolezza riescano a completarsi e ad intrecciarsi. La riflessione sulla sostanza della parità diventa quindi importante…
…per squarciare quel velo di falso progressismo che maschera l’oggettificazione del corpo femminile da liberazione sessuale (in televisione e sui giornali, in discoteca, per strada); e che fa passare la messa in scena di immaginari erotici di impronta maschile per una scelta consapevole e “liberata” al femminile;
…per superare quell’organizzazione del lavoro che è ancora specchio di un modello sociale e familiare patriarcale basato su una rigida divisione dei ruoli, e adeguarsi a ritmi e impegni di madri lavoratrici, o di padri che vogliano passare più tempo coi loro figli;
…per riappropriarci del nostro diritto a diventare – o a non diventare – madre, per scelta e consapevolezza della nostra femminilità, della nostra vocazione e secondo in nostri ritmi interni. E non sulla base di mistificazioni sociali che mortificano il senso della maternità, che ci persuadono che non c’è fretta e diventare madri per la prima volta dopo i 40 anni è una cosa perfettamente normale (di fatto minimizzando l’impatto della precarietà); o peggio, che cercano di convincerci che la maternità è una scelta e un’esperienza come un’altra (alla stregua dell’accettazione o meno un lavoro, per esempio) e quindi tranquillamente rinunciabile senza conseguenze. Perché non è paritaria una società in cui un bambino viene percepito come un lusso; e perché i mesi di maternità devono venire accolti da un datore di lavoro non solo come una cosa normale, ma anche come un avvenimento felice che contribuisce alla completezza personale di una donna (se non alla sua efficienza professionale, come molte dimostrano molte donne!);
…per non dover più ridurre la discussione, in materia di aborto, ad una semplice questione etica, che porta a dividere di fatto le donne in “moraliste” o “liberate”, e affrontare invece la complessità di questa possibile esperienza tenendo conto della molteplicità di condizioni ed emozioni che la compongono e la determinano, riflettendo quindi sulle condizioni che mettono una donna nelle condizioni di scegliere liberamente (welfare, per esempio);
…per non osteggiare le nozioni di genere e identità sessuale fino al punto di appiattire, di fatto, quel gioco di ruoli e seduzione che rende speciale e complementare il rapporto tra un uomo e una donna. Certo, far convivere questo con un’educazione delle bambine e dei bambini capace realmente di stimolare i loro gusti e personalità al riparo da archetipi e stereotipi, mi rendo conto, resta forse tra le sfide più grandi al momento (per esempio io non ho ancora un’opinione chiara riguardo alle esperienze scandinave degli “asili senza sesso“);
…per interpretare la lotta femminista come qualcosa di più di un retorico seno nudo in segno di protesta.
…per a trovare, nel nostro percorso professionale, quelli che sono i nostri metodi espositivi, le nostre associazioni di pensiero, il nostro linguaggio, il nostro stile, e anche il nostro abbigliamento, senza prendere per forza come punto di arrivo e riferimento la modalità maschile.
Quale sarebbe il riflesso su politiche e organizzazione sociale se alle tradizionali metodologie di valutazione dei progetti, per esempio, aggiungessimo altri tipi di indicatori, i nostri, basati sulle nostre differenti intuizioni, sensibilità e priorità? A questo proposito mi hanno colpito un paio di pensieri, entrambi scritti da uomini, che per me colgono bene alcune di queste sfumature da valorizzare e coltivare:
Se c’è qualcosa che va fatto fuori dall’ordinario e senza indugio, non perdere tempo con gli uomini; gli uomini lavorano secondo le regole e le leggi. Cerca le donne e i bambini. Loro lavorano secondo le circostanze (W. Faulkner)
L’intuizione di una donna è molto più vicina alla verità della certezza di un uomo.
(R. Kipling – non certo un femminista; ma ho deciso di fermarmi al messaggio che è arrivato a me).
L’interpretazione della diversità è un processo in fieri, fatto di confusioni, sovrapposizioni, contraddizioni e sperimentazioni, da cui nessuna è ancora esente, credo. Tuttavia, una dimensione importante, nuova, si sta aggiungendo alla narrazione femminista e alle sfumature delle definizioni e delle lotte per la parità di diritti e opportunità: gli uomini (che in Italia sono scesi in piazza, per esempio per la manifestazione “Se non ora quando”).
La carica narrativa degli uomini a fianco delle loro compagne non necessita di troppe didascalie, e a questo proposito lascio parlare le immagini della campagna “The uprising of women in the Arab world“, dove centinaia di uomini e donne da tutto il mondo arabo (ma non solo) hanno inviato una loro foto con scritti i motivi della loro adesione alla protesta. In un contesto, come quello arabo, senza quasi nessuna specifica tradizione femminista, assistiamo a una nuova, allargata interpretazione del concetto, dove le voci di uomini e donne si alternano allo stesso livello. Non è che ci stanno superando?

Jina & Hani from Syria: I’m with the uprising of women in the Arab world, because
She = He.

Mustafa and Ahmad from Yemen: We are with the uprising of women in the Arab world because they are an inseparable part of us all.