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Archive for the ‘L’Italia difficile’ Category

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La grande bellezza è un film a tante facce, che confonde in un gioco di specchi realtà, autenticità, cruda bellezza, e quell’illusione talmente perfetta da non poter essere più distinta, come tale, dalla bellezza pura.

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La prima cosa che ho pensato quando l’ho visto è che, oltre ovviamente alle differenze individuali, si sarebbe trattato di un film profondamente diverso a seconda di se a guardarlo si fosse trattato di romani, un italiani, italiani espatriati, stranieri. Un altro film.

Diffido delle capacità percettive di quelli a cui non è piaciuto…

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Si dà il caso di una persona qualificata e competente, più o meno mia coetanea, mia conoscenza di lavoro, che lavora ininterrottamente in regione da almeno quattro/cinque anni, a progetto, con un agonico e striminzito contratto annuale che necessita annuale rinnovamento – sì perché si sa che la regione non apre i concorsi da quel dì.

Si dà il caso che mi venga segnalato un bando pubblico della mia esimia e distinta regione, un bel po’ pertinente al mio ambito di lavoro! Praticamente quello che facevo lassù al nord, ma a livello regionale. Beh, a dir la verità i requisiti sono alquanto restrittivi. Anzi, molto, molto restrittivi. Va beh. Ma esisterà il buon senso, no?

All’uscita dei risultati, qualche settimana dopo, con stupore vedo non solo che la persona che ha vinto è quella mia conoscenza di lavoro; ma che dei 6 candidati, solo a quella persona erano stati riconosciuti i requisiti minimi per poter essere valutato (ovviamente col massimo dei voti). Ora, non credo che gli altri abbiano spedito una candidatura col CV di paperino, e il mio di sicuro non lo era in quanto ad esperienza; risulta quindi un bel po’ strano che i restanti 5 candidati siano tutti stati considerati, non dico insufficienti o successivi in graduatoria, ma proprio non valutabili e pertinenti: “N.V.: mancanza dei requisiti di accesso previsti dal bando – titolo di studio ed esperienza professionale attinente”. Erano effettivamente molto restrittivi quei requisiti…

Non sono per l’eliminazione dei concorsi, in via di principio, perché pur nella manipolazione riescono (forse?) a garantire una certa quota di merito e pari opportunità. Ma d’altra parte, ha senso il sistematico aggiramento dell’obbligo del bando, con la creazione di requisiti contro ogni buon senso HR (in quanto immotivatamente restrittivi) e di conseguenza non soddisfacilbili?

Avrebbe senso invece superare questa anacronistica e ipocrita procedura dei bandi, laddove, come in questo caso, si parli di consulenze pluri-annualmente rinnovate e motivate da effettiva competenza del personale assunto?

E poi mi pare che tutto si riduca una guerra tra poveri: da una parte chi perde tempo (e i soldi della raccomandata :-)) pensando che esista una competizione; e dall’altra parte un precario lì da anni che ogni anno deve rinegoziare la sua posizione, il tutto per un mantenimento delle apparenze e l’incapacità di legittimare la sostanza delle cose.

Qual è la logica che sottende alla sopravvivenza di meccanismi così sfacciatamente superati e riconosciuti limitati? Dato che il bando pubblico non è certo garanzia di trasparenza, perché la pubblica amministrazione non deve essere in grado di fare contratti temporanei per competenze specifiche di cui ha bisogno?

(A chi potesse pensarmi ingenua, vorrei solo dire che questo post non nasce dal mio candido stupore di fronte alle logiche della terra natìa. Ma, al contrario, dalla deliberata e consapevole scelta di mantenere, nonostante la scontatezza, lo sguardo del marziano).

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La scia mediatica sui suicidi per ragioni economiche non si ferma. Oggi è stato il turno di una coppia di sessantenni e del fratello di lei.

Nella scelta di un gesto così estremo probabilmente ci sono ragioni talmente profonde e insondabili per cui ogni parola qui gettata rischia in sé di essere ridicola. Tuttavia i giornali continuano a scriverne (pur essendo stato dimostrato che i suicidi a “causa economica” non sono aumentati rispetto a qualche anno fa).

Io, nonostante la profonda pietà per queste persone, e il rispetto per la tragedia umana e sociale, non riesco ad accettare la passiva accettazione e il buonismo che trasuda da questi articoli. Ma allora chi vive/ha vissuto la guerra, cosa avrebbe dovuto fare? E ancora, è giusto avvalorare come atto di dignità il rifiuto dei servizi sociali? Ma secondo quali scale di valori?

Forse i valori di quella società individualista che ha dimostrato di non essere sostenibile, e in cui ogni individuo-ingranaggio è chiamato a sopravvivere sulla base delle sue proprie forze, in cui la povertà è giudicata una forma di fallimento personale e professionale, e il successo qualcosa di chiaramente quantificabile in termini economici o di prestigio sociale.

Ma il lavoro ora non c’è per tutti, e i trend ci dicono chiaramente che ce ne sarà sempre meno da qui a trent’anni. E pensare ad una società in cui ogni singolo riesca a farsi strada verso il “successo” solo grazie alla propria volontà e determinazione è irrealistico oltreché fuorviante, perché carica la persona di responsabilità circa una serie di circostanze che vanno in realtà ben oltre il suo raggio d’azione.

Allora forse è anche questo il problema: che dobbiamo renderci conto che rafforzare le maglie della solidarietà e dello scambio di risorse a livello sociale in questo momento è 1) necessario e improrogabile (perché la coperta è corta) 2) non è sinonimo di fallimento. E non mi sto riferendo necessariamente a modalità proprie del welfare assistenzialistico tipico del XX secolo, perché oggi la solidarietà, per ragioni di sostenibilità, dovrà passare per nuove soluzioni e flussi di circolazione delle risorse, completamente da inventarsi (mi riferisco per esempio alle esperienze di innovazione sociale).

Perché senza un ripensamento globale del ruolo e dei modi della solidarietà, quello che rischiamo di riaffermare è – e questi episodi ne sono espressione – una scala di valori in cui è quel tipo di successo (categoria tipica dell’era economica industriale e della società di massa basata sulla riduzione del valore della persona al suo status sociale/professionale) che determina la dignità personale; in cui è normale suicidarsi perché non si hanno soldi; in cui quasi è meglio suicidarsi che chiedere aiuto; in cui suicidarsi, in fondo, lascia integra la propria dignità (per dirlo con le parole del sindaco: “hanno preferito scomparire piuttosto che chiedere aiuto, dimostrando una dignitaà estrema nella tragedia: in altri luoghi la disperazione avrebbe portato a atti di criminalità”).

Ma stiamo scherzando? Qual è quindi a vera tragedia? Secondo me, sarebbe più corretto dire che questi suicidi sono sintomo e conseguenza di una profonda crisi sociale e culturale di cui le vittime non sono che l’ultimo anello, e non effetto diretto della crisi economica.

E sia ben inteso, questo articolo non prende di mira la scelta, o meglio, il dramma dei singoli, bensì il racconto che se ne fa e il modo di inquadrarlo nel sistema più ampio di valori.

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Ok, è una provocazione. E chiaramente una generalizzazione.

Ma lo noto da molto e la mia opinione è condivisa da altre persone che, con lo straniamento dato dalla distanza, seguono da lontano i battibecchi italiani, soprattutto politici, ma non solo. Come ripete sempre un mio caro ex collega italiano qui in Belgio, “…se gli italiani imparassero a discutere, avrebbero risolto la metà dei loro problemi”.

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Ma cosa vuol dire che non sanno comunicare? Non siamo il popolo delle mani che si agitano e girano in mille modi, della lingua che “voi italiani quando parlate, è come se cantaste“, ecc?

Certo, siamo un popolo fortemente comunicativo, e sicuramente – meglio – espressivo; ma l’espressione non necessariamente si preoccupa di creare una dinamica costruttiva con l’altro né di raggiungerlo in maniera da creare “senso” per l’altro. L’espressione parte dal “sé” per costruire il “sé”, ovvero, può essere fine a se stessa.

E limitando la riflessione a quello che raramente vedo in televisione a Ballarò o a Servizio Pubblico (gli unici due programmi che guardo da qui), noto che la maggior parte degli italiani si esprimono. Si mettono letteralmente su un palcoscenico; c’è chi mette in scena veemenza e aggressività; chi passione e tragicità; chi inscena pantomime. Ognuno a suo modo e con gradi di egocentricità e narcisismo differente, dipendentemente dal carattere di ognuno. Come un’artista che crea per sé e per raggiungere sé e quello che ama, e a cui non importa raccogliere necessariamente il consenso altrui.

Ma se ego e narcisismo possono essere componenti sostanziali, e a volte fondamentali della creazione artistica, e se anche si possa parlare di arte della politica, la politica e l’arte restano due cose diverse e in politica, differentemente dall’arte, il dialogo e la considerazione dell’altro nei propri atti comunicativi è essenziale. Altrimenti si cade nella ben nota “autoreferenzialità” di cui si parla tanto.

Vi sono una serie di costanti, tra loro complementari che caratterizzano fortemente per me il modo di discutere italiano (ovviamente elenco quelle che colgo per contrasto rispetto a quello che vedo altrove).

– Due atteggiamenti complementari: quanto poco la gente ascolti; quanto poco la gente rifletta prima di parlare.

– Una ricerca di conflitto contenzioso che fa sì che tutto venga malinterpretato o sovrainterpretato ai propri fini. E anche quando non vi è contrasto di opinione, perché magari di fondo si sta tendendo allo stesso obiettivo, lo si crea distorcendo faziosamente il significato allo scopo di perpetuare il malinteso e marcare la distanza (e quindi la distinzione) dall’altro.

– Una ricerca di rivalsa (e questo lo vedo soprattutto nei commenti scritti su Internet). Si interviene per criticare e distruggere, e svuotarsi dalle frustrazioni personali. Io li chiamo “i rigurgiti di pancia“. Basta confrontare lo stile dei commenti agli articoli online tra una grande testata italiana e una francese per rendersi conto della differenza di tono ed intenzione, e notare una maggiore costruttività.

– A differenza di altri paesi occidentali, dove la distinzione tra identità professionale e personale è molto più forte, in ogni discussione ci si investe a titolo personale (e quindi, ci si scalda e ci si impermalosisce…), cosa che non aiuta l’analisi e l’argomentazione razionale.

– In definitiva, il processo è sempre più importante della sostanzasi discute per discutere e per dare spazio e affermare la propria presenza, esistenza, e posizione, e non per fare avanzare la discussione, e men che meno per raggiungere un accordo! Il messaggio dell’altro è spesso secondario, e dunque anche l’ascoltare.

– In tutto ciò, ovviamente, i turni di parola restano il più delle volte un vago concetto teorico.

Sarebbe più corretto dire, quindi, che gli italiani non sanno dialogare (dia; lógos) – e che, probabilmente se imparassero, l’Italia potrebbe ingranare direttamente la quarta, liberandosi di catene, melma e peso che la relegano in questo buco nero.

Il dialogo presuppone, oltre che la volontà di raggiungere l’interlocutore col nostro messaggio, la capacità di ascoltarlo, che non vuol dire lasciare che le onde sonore raggiungano i nostri padiglioni auricolari, ma sforzarsi di interpretare il messaggio secondo le intenzioni comunicative dell’altro; di immaginare il significato che l’altro sta dando alle parole nel suo mondo; di leggere gesti e figure di pensiero mettendosi nella pelle dell’interlocutore, senza anteporre i propri significati, pregiudizi ed ego al messaggio altrui.

E se da un lato è vero che non esiste uno scambio al riparo di malintesi e che la comunicazione pura è un ideale, dall’altro anni di vita in contesti internazionali insegnano che un sana disposizione all’ascolto e una comunicazione trasparente e al contempo critica e costruttiva sono possibili.

In contesti multiculturali e internazionali infatti, paradossalmente, quasi ci si capisce di più, perché tutti assumono alla base di poter stare fraintendendo l’altro, a causa di una non sufficiente padronanza della lingua di scambio o per differenza dei riferimenti culturali. Per cui il confronto diventa tutto un alternarsi di frasi come: “non so se ho capito bene quello che intendeva dire…”; “se interpreto bene il suo messaggio…”, ecc. Un’ottima palestra di umiltà, per ridimensionare l’ego e il narcisismo ed educare all’ascolto (ma perché non creano l’Erasmus dei politici?)

Ed è incredibile quanto risulti sempre faticoso invece comunicare in maniera diretta in Italia. La sensazione è di una costante dispersione del flusso comunicativo in volontari malintesi e strumentali travisamenti, con conseguente aggiunta di strati di significato non pertinenti. La reazione più comune che mi viene ascoltando conversazioni o leggendo i commenti degli utenti in internet a post e articoli è: “ma ha ascoltato quello che ha detto?”, “ma l’ha letto l’articolo prima di scrivere?”.

Va da sé che se la televisione in generale, ma anche il giornalismo, non continuasse a incentivare questa disfunzionalità a scopo di audience, forse questa continua incomprensione e circolarità per lo meno comincerebbe a non risultarci più così normale; e forse anche le capacità analitiche di molti migliorerebbero, e non avremmo il 47% di analfabetismo funzionale, come rilevato dall’OCSE…

P.S.: Questa riflessione me l’ha stimolata soprattutto l’articolo di Emanuele Ferragina riguardo questo suo intervento su Servizio Pubblico. Un’autocritica ammirevole per due motivi: uno perché è un auspicio e un riferimento a modelli diversi di comunicazione televisiva – non per niente la persona in questione vive in un contesto culturale molto diverso; due perché considerato il contesto e il tipo di interlocutori a cui ci si raffrontava, farsi un’autocritica oltre ad essere un atto di grande onestà intellettuale e umiltà, è quasi paradossale.  

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They argue for a change in values, but still take most of the old assumptions about how the world work for granted. (…) Most world leaders – indeed, most leaders of business and government anywhere – harbor the same old tired set of assumptions about how to solve the world’s problems. And more often than not, they seem focused on tinkering with old models rather than moving to something new and viable”.

Un pezzo come altri in “Macrowikinomics”, di Tapscott e Williams, (libro che tutti i dirigenti dovrebbero leggere…) che mi ha portato nuovamente a riflettere sul problema che c’è in Italia col concetto di cambiamento.

Nello specifico, ho avuto il dispiacere di leggere commenti e articoli negli ultimi due mesi (dalle primarie del PD in poi) con problemi di logica e argomentazione tristemente preoccupanti e disarmanti.

Indipendentemente da mentalità, argomenti, priorità strategiche, approccio di governance proposti dai candidati (su cui l’opinione di ognuno e il dissenso sono legittimi), ho visto applicare proprietà transitive e pseudo-sillogismi aberranti che suonavano più o meno così:

“Berlusconi quando è sceso in campo rappresentava la novità; è stato votato proprio per questo e ora guardiamo dove siamo finiti”; Renzi si propone come novità; quindi Renzi sarà come Berlusconi”.

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Per quanto riguarda Grillo invece, è stato paragonato non solo a Berlusconi ma addirittura a Mussolini sulla base di analisi pseudo-comunicative volte a sottolineare  (solo) elementi come il culto della persona e il populismo delle sue arringhe alle folle. Sinceramente, ciò mi pare eccessivo e sempliciotto, e questo senza voler negare le criticità o i punti interrogativi sollevati dal movimento 5 stelle.

Per me la cosa grave di queste posizioni non è certo il disaccordo con gli individui specifici (legittimo); ma è che a fronte dei ragionamenti (se così si possano chiamare) riportati sopra, non ho sentito alcuna analisi o domanda intelligente riguardo al valore (o meno) del forte cambio di paradigma sotteso dalle idee dei personaggi di cui sopra, e questo indipendentemente da se ci piacciano o no: la politica energetica, le basi del patto cittadini-stato, la governance, il ruolo della rete, il significato di innovazione, il ruolo dell’intermediazione dei partiti o di destra e sinistra nel mondo del 2013…

Cioè, la dimensione intellettuale è completamente assente. Come se non ci fosse ancora alcuna consapevolezza o riflessione su quello che significa ‘cambiamento di paradigma’.

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Con lo sguardo ingenuo e attonito del marziano, o di chi da molto tempo si relaziona in una cultura del lavoro molto diversa,  colgo l’occasione per fissare le cose che mi lasciano interdetta mentre mi riavvicino cauta al mio paese, e comincio a ripetere quello che nei prossimi mesi credo diverrà il mio mantra quotidiano: “una vita (dignitosa) in Italia è possibile…” Ed è solo l’inizio…

Mi dico che continuare a giocare la parte dello straniero basito in patria non sarà facile, ma è importante. È importante mantenere questo sguardo e comportarsi come se l’alternativa fosse la propria normalità (ora lo è!), spiazzando con le domande chi ti si rivolge pensando di avere l’unica verità tasca. Ora, non sto scoprendo nessuna verità, ma voglio solo metterla per un momento allo specchio.

Cercare lavoro

all’estero

Nei siti specializzati gli annunci si rivolgono a professionisti di tutti i livelli (dallo stagista al manager) e in tutti i settori, inclusi testate giornalistiche, enti statali e para-statali, e organizzazioni internazionali come Nazioni Unite o le istituzioni europee. Quindi per cercare lavoro in una città, uno guarda gli annunci e manda il CV dove più gli interessa. I soldi non sono un tabù, e spesso la forbice relativa all’eventuale proposta economica è chiaramente indicata, perché elemento decisivo nella preselezione dei candidati secondo esperienza e talento.

in Italia

Nei siti specializzati gli annunci si rivolgono prettamente a ruoli tecnici o iper-specialistici (ingegneri, software developer, esperti di chimica industriale) o executive nel settore vendite o comunicazione, ovviamente solo nel mondo del privato. Tutto il resto affonda in un fitto mistero…e uno non sa nemmeno dove mandarlo il CV. Di soldi poi, per pudicizia, non si parla; in Italia, si lavora per passione!

I siti web di aziende ed enti

all’estero

Non solo sono tutti rigorosamente dotati di una sezione “jobs” in cui pubblicare – e aggiornare – le vacancies; ma la maggior parte delle volte riportano nome, responsabilità e indirizzo email dello staff. A volte anche la foto. Essere presenti, avere visibilità, è visto come un’opportunità.

in Italia

Se la sezione “jobs” resta un’utopia, quella contatti è appena abbozzata. Se va bene, si compone di un’email generica (“info”; “segreteria”) e poche o assenti indicazioni su chi contattare, management e responsabilità. Nei peggiori casi, si troverà un anonimo form o il numero di telefono di un centralino. Message in the bottle…

Telefonare per informazioni su un lavoro

all’estero

È perfettamente normale abbozzare una richiesta del genere: “buongiorno. Siccome sono interessata a quello che fate e credo di avere un profilo coerente, volevo sapere se ci sono o saranno in futuro opportunità, se il turnover del personale è alto, e nel caso, a chi si possa inviare il CV/con chi si possa parlare”. È sottointeso che così, in caso di risposta negativa, il candidato non perde tempo a inviare il CV. Al contempo, confermare la possibilità di opportunità future non è vissuto certo come un’insidia (dopotutto, ci saranno delle selezioni, no? Se non ti vogliono non ti selezionano); al contrario, ti ringraziano, perché hai dimostrato interesse nel loro business, e si sa che se le competenze si combinano con l’interesse, tu ti trasformi in un vantaggio competitivo per loro.

in Italia

La domanda di cui sopra genera nell’interlocutore un profondo imbarazzo, circa una verità imperscrutabile e insvelabile, come se gli fosse chiesto qualcosa di indiscreto e insidioso al tempo. Ingestibile. Balbettii. Voce secca e distratta: “mandi il CV all’indirizzo info, sul sito”. Alla sollecitazione su informazioni circa possibilità di allargamento future e livello di turnover del personale (cosa che peraltro avevo già verificato tramite altri canali), scatta il panico: “mi spiace ma su questo non posso dirle nulla”, come se si trattasse di un particolare strategico in grado di mettere a repentaglio la sicurezza delle proprie linee.

Scrivere un’email

all’estero

Tu scrivi. Loro ti rispondono

in Italia

Anche no.

Appellativi

all’estero

Nome e cognome. Dopo un paio di incontri, anche solo nome. Questo non mette in discussione il rispetto della gerarchia sul piano professionale, ma rappresenta l’assunzione del rispetto e della parità sul lato umano e personale.

in Italia

Sono tutti dottori e dottoresse. Non che riconoscere un titolo o un merito sia sbagliato. Ma spesso viene usato come vacuo spauracchio di potere fine a se stesso, e soprattutto – e questa è la cosa più importante – senza fare distinzione tra dimensione professionale e personale.

Chiedere un appuntamento

all’estero

Chiunque può proporre un incontro a chiunque, anche a direttori e direttori generali. L’indirizzo email è online, si scrive direttamente alla persona, ci si presenta e si chiede un appuntamento. Si riceve una risposta, anche direttamente dall’interessato, e in caso di disponibilità e reciproco interesse ci si accorda per una data. Imprevisti o annullamenti possono insorgere a ogni latitudine certo, ma prima si prende un impegno comune, interpretando l’incontro come un occasione di reciproco scambio e opportunità.

in Italia

Propostoti un incontro, ti si invita a comunicare le date di passaggio in una città per fissare col direttore – il tutto ovviamente indirettamente, tramite la segretaria. Nonostante ciò, non si fissa un giorno e un tempo in agenda. No. Si lascia tutto aperto, senza nemmeno una programmazione di massima. In caso di disponibilità, si fisserà qualche giorno prima, come se l’altro non avesse impegni di sorta e fosse sempre “a disposizione” – e soprattutto abitasse dietro l’angolo.

Perché è così che è visto il lavoratore in Italia. Una persona “a disposizione” e implicitamente ricattata, in un rapporto monodirezionale (io ti do lavoro) e gerarchico (io ho il potere, tu no).

Convinta che qualsiasi cambiamento normativo debba essere concepito in relazione al sostrato culturale in cui si innesta, e che qualsiasi virtuosa trovata super-sostenibile o super-competitiva di stampo nordico o anglosassone – quando impiantata nei suoli coloriti del mediterraneo – possa dar vita a imprevedibili teatri dell’assurdo, mi interrogo sulle variabili che possano davvero contribuire a promuovere competitività, meritocrazia e trasparenza nel mercato del lavoro italiano, nonché promuovere i giovani a posizioni di responsabilità.

E  mi chiedo, quale sarebbe davvero il peso specifico dei vari interventi legislativi, riforme dei contratti e misure di supporto ai giovani, a fronte di una cultura dei misteri e non basata sulla valorizzazione delle risorse?

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Io non mi vedo nel posto fisso, questo no, e sono d’accordo con quanto recentemente affermato dal Presidente del consiglio. Certo, dopo tre-cinque-sette anni (dipendentemente dall’età e dalla fase professionale) è senz’altro interessante rimettersi alla prova per non lasciarsi andare. Potrebbe anche avere senso farlo all’interno della stessa organizzazione, tramite una promozione, o un cambio di ruolo. Insomma, per continuare a crescere. Quindi sì, certamente un posto fisso in cambio di sfide valorizzanti e possibilità di crescita personale e/o economica, è monotono – (che caso però che la monotonia sia una sensazione che sboccia quasi sempre in concomitanza della sicurezza…).

Il problema, comunque, non mi si è ancora posto. A scanso di equivoci e a titolo informativo vorrei quindi comunque fare presente quale sia la vita del lavoratore temporaneo cronico, in scadere di contratto (più o meno a sei mesi dalla fine del contratto), che ha già passato parecchi anni in questa situazione (e siccome molti contratti al giorno d’oggi sono di soli 6-12 mesi, si parla della gran parte del tempo di vita di una persona…).

Ho volutamente esagerato (ma forse nemmeno più di tanto…).

Lunedì
Mattina: lavoro.
Pausa pranzo: scrivere lettera di motivazione, con scadenza dopodomani.
Pomeriggio: lavoro…è tanto ma devo mantenere un po’ di energie per stasera.
Sera: finisco la lettera e aggiusto il CV

Martedì
Mattina: lavoro, ma intanto penso alla lettera che devo inviare.
Pausa pranzo: rileggo e invio lettera + ricerco altri posti dove mandare CV
Pomeriggio: lavoro…accumulato da ieri, quindi resto fino a tardi.
Sera: morto/a di stanchezza

Mercoledì
Mattina: lavoro, ma penso a se la lettera andava bene e a quando mi faranno sapere qualcosa da quel colloquio…
Pausa pranzo: scrivo ad alcuni contatti per indagare possibilità di lavoro.
Pomeriggio: lavoro. Dopo tre giorni di pausa pranzo davanti al computer mi sento però un po’ stressato/a…
Sera: varie

Giovedì
Mattina: avrei voluto prendermi la mattina libera per concentrarmi sui CV, ma non ho ferie…
Pausa pranzo: stampo alcuni annunci e imbastisco un’altra lettera di motivazione
Pomeriggio: lavoro: questo report è interessante e vorrei prendermi tempo per leggerlo…ma..forse è più urgente la mia vita e i CV, perché il tempo stringe e non ha più senso investire troppo su questo lavoro!
Sera: morto/a di stanchezza, anche se sono uscito/a apposta prima per i CV!

Venerdì
Mattina: lavoro. Vorrei proporre questa iniziativa al mio capo…ma a che pro, fra pochi mesi non ci sono più.
Pausa pranzo: mi prendo una pausa pranzo decente
Pomeriggio: lavoro. Che ansia, ho mandato solo un CV questa settimana!
Sera: contatti sociali: amici, compagno/a. Chissà però per quanto resterò ancora in questa città e che ne sarà di loro…

Sabato e Domenica
Almeno un pomeriggio dei due dedicato a scrivere lettere e adattare CV, finalmente con piena concentrazione.
 

Una monotona vita col posto fisso (o con tutte le tutele o alternative del caso)

LunedÌ
Mattina: lavoro.  È proprio interessante.
Pausa pranzo: pausa
Pomeriggio: lavoro
Sera: stacco la testa e progredisco in quello che mi piace fare: corso di disegno / suono uno strumento / vado al corso di canto

Martedì
Mattina: lavoro. Mi piacerebbe approfondire questo aspetto.
Pausa pranzo: corso di yoga
Pomeriggio: Lavoro. Voglio capirci di più di questa cosa e investo un’ora del mio tempo in più per leggere questo report.
Sera: stacco la testa e programmo il futuro: comincio a organizzare la prossima vacanza con amici o familiari

Mercoledì
Mattina: lavoro. Grazie alla lettura di ieri sera ho capito delle cose in più.
Pausa pranzo: pranzo con una mia amica che non vedo da tanto
Pomeriggio: Lavoro.  Propongo una cosa nuova al mio capo.
Sera: stacco la testa e sono connesso/a al presente: leggo un libro interessante a casa e dedico tempo ai miei amici o familiari

Giovedì
Mattina: lavoro.
Pausa pranzo: sbrigo un po’ di commissioni in centro
Pomeriggio:  lavoro. È tanto, ma mi sento pronto per nuove responsabilità, e questo mi gratifica.
Sera: Il lavoro è tanto e stasera me lo porto a casa, e va bene così. Dopotutto, è il MIO lavoro, mi ci rispecchio e costituisce una parte della mia identità.

Venerdì
Mattina: lavoro.
Pausa pranzo: pranzo coi colleghi
Pomeriggio: lavoro. Il capo mi parla di un nuovo progetto per il quale ha pensato a me.
Sera: stacco la testa e vivo: mi dedico ai miei affetti, agli amici, al mio compagno/a con la tranquillità di potervi investire.

Sabato e Domenica
Stacco la testa e vivo.

** Ora, io mi chiedo come i datori di lavoro si accontentino del primo profilo…**

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